sabato 31 agosto 2013

Recensione: Ragni

Titolo: Ragni
Autore: Claudio Vastano
Editore: Dunwich
Pagine: 196
Prezzo edizione  cartacea: 9,90
Prezzo Ebook: 2,49

Descrizione:
Charles MacDermhott è l’ultimo superstite della città di Revel e lotta strenuamente contro i ragni giganti che hanno scalzato l’umanità dal podio di specie dominante del pianeta Terra. Le giornate dell’uomo trascorrono in completa solitudine fino all’arrivo di Lucia; la ragazzina è in fuga da Jacksonville, l’inferno terrestre presidiato da orde di aracnidi corridori. Nessuno sa da dove provengano queste creature né chi le abbia create. C’è una sola certezza: non c’è modo di arrestarne l’avanzata. Se MacDermhott sembra abituarsi alla sua nuova condizione di “cacciatore eremita”, altri individui non sono dello stesso parere. Dalle ceneri della società umana divorata dai ragni giganti iniziano a emergere nuovi e più terribili mostri. Chi sono i misteriosi uomini in nero che tiranneggiano fra le strade di una città in rovina e quali sono le loro intenzioni? Mentre una nuova progenie di incubi si appresta a invadere Revel, MacDermhott comprenderà che la più terribile delle minacce può nascondersi soltanto nei meandri più reconditi della mente umana.

L'autore:
Claudio Vastano nasce a Lucca nel 1975. Laureato in Scienze Naturali e Scienze Geologiche nel 2005, attualmente collabora con alcuni periodici e quotidiani come Il giornale dei misteri, Spirito Libero e Il Corriere di Lucca. Ha pubblicato L’ag­ghiacciante caso del gatto nella minestra con Marinari Editore, recentemente premiato con la Menzione d’onore al concorso letterario F. Kafka 2011 a Gorizia. Più di recente la FQ editore ha pubblicato il romanzo di fantascienza Micelio, giunto finali­sta al concorso Urania della Mondadori.

La recensione di Miriam:

L’umanità non è più la specie dominante del pianeta. Nuove creature, più forti e più temibili hanno preso il sopravvento decretando la fine del mondo che conosciamo. In uno scenario post apocalittico, pochi sopravvissuti lottano per tenersi in vita e far sì che l’uomo non si estingua del tutto.
È un’idea spaventosa quanto ricorrente nell’immaginario collettivo, una delle ipotesi alle quali non si può fare a meno di pensare se si guarda al futuro, triste possibilità che ha ispirato una lunga serie di scrittori e registi dando vita, per altro, a opere indimenticabili (basti citare Io sono leggenda di Matheson). Claudio Vastano prende spunto dalla stessa idea sviluppando una trama che ricalca un sentiero già battuto inserendovi però interessanti novità.
Accantonati gli ormai inflazionati zombie e vampiri, l’autore scommette sui ragni e, dal mio punto di vista, vince non solo perché così facendo elabora un’originale variante sul tema ma perché fa leva su una paura molto comune. Quand’anche non assume la forma di una vera e propria fobia, la paura degli insetti (degli aracnidi soprattutto), o quanto meno il senso di repulsione nei confronti di queste creature, è qualcosa che ci accomuna su larga scala.
Ora, immaginate che in seguito a una mutazione genetica dalle cause ignote i ragni comincino a crescere fino ad assumere le proporzioni di veri e propri giganti e che, anziché cibarsi di mosche e altri esserini simili prendano di mira animali di grossa taglia compresi gli esseri umani.
Non vi sembra una prospettiva raccapricciante?
Se il solo pensiero vi fa rabbrividire, sappiate che è appena un assaggio di quel che vi aspetta giacché i protagonisti di questo horror fantascientifico godono di particolari attenzioni. Vi imbatterete così in descrizioni assolutamente realistiche e dettagliate delle loro fattezze, delle loro abitudini delle peculiari tecniche predatorie di cui si avvalgono. A sorreggere il plot vi è infatti un bagaglio documentale degno di un entomologo. Vastano non si limita a parlarci di ragni in senso generico ma ne descrive le diverse specie (ignoravo che fossero così tante!) con le relative caratteristiche poiché immagina che, evolvendosi, questa classe di insetti abbia conservato tutte le sue specificità con la sola eccezione delle dimensioni.
Il futuro paventato in questo romanzo somiglia a uno dei peggiori incubi. La storia comincia dalla fine, ovvero dal momento in cui i giganteschi aracnidi hanno saccheggiato e distrutto intere città. I pochi superstiti vivono barricati in case trasformate in piccole fortezze, costretti a sgusciare fuori  quando il nemico dorme per poter fare scorta dei pochi viveri rimasti nei supermarket abbandonati. Non più in testa alla catena alimentare, l’uomo è scivolato di un anello cedendo il posto a un predatore ancor più letale.
Protagonista umano della vicenda è Charles MacDermhott, un ex chimico trasformatosi in cacciatore di ragni per istinto di sopravvivenza. Egli non si limita a fare fuoco; consapevole del fatto che occorra conoscere a fondo il nemico per poterlo combattere, ha messo su un vero e proprio laboratorio in cui studia i ragni ed è anche riuscito a produrre un antidoto efficace per contrastare il veleno di alcuni.  Gli altri sopravvissuti vorrebbero accoglierlo tra loro proprio per avvantaggiarsi delle sue conoscenze ma Charles è un misantropo e preferisce restare da solo. È l’ultimo abitante rimasto nella città di Revel e divide la sua casa unicamente con Sherpa, una scimmia scoiattolo scampata alla distruzione di un vecchio zoo.
La sua solitudine perfetta tuttavia non avrà lunga durata. Quando si imbatterà in Lucia, una ragazzina di quasi quattordici anni, rimasta orfana, MacDermhott non avrà cuore di abbandonarla e la prenderà con sé. Si comporrà così un improbabile trio che vedremo al centro di un’altrettanto improbabile battaglia.
Ma i ragni saranno davvero i soli mostri di cui avere paura?
Se azione e adrenalina sono elementi essenziali di una storia che ci tiene incollati alla pagina, l’autore non rinuncia a un momento di riflessione. L’efficacissima maschera horror di cui si veste Ragni, cela infatti anche un’anima annidata più in profondità e che, a mio parere, eleva l’opera al di sopra del mero intrattenimento.
La misantropia di MacDermhott non è un capriccio privo di fondamento. Egli conosce i suoi simili e ha valide ragioni per dubitare della loro bontà d’animo. Il buon senso vorrebbe che ci si alleasse di fronte a un nemico comune ma, a quanto pare, non è così che vanno le cose. Mentre gli insetti si apprestano a dominare definitivamente la terra, gli uomini rimasti in vita si dividono; non più fratelli ma Rossi e Neri pronti a uccidersi fra loro  per conquistare la supremazia di un mondo morente.
Man mano che l’epilogo si avvicina comprendiamo dunque di essere finiti nei meandri oscuri della mente umana che sa rivelarsi infine, una tela non meno pericolosa di quella tessuta da un ragno.
Consigliatissimo se amate l’horror, un po’ meno se soffrite di aracnofobia…
Avete presente Robert Smith nel video di Lulluby? Leggendo Ragni vi sembrerà di sprofondare tra fili serici allo stesso modo mentre fauci fameliche incombono su di voi. 




 
   





venerdì 30 agosto 2013

Recensione: L'amico del Führer


Titolo: L'amico del Führer
Autore: Orazio A. Santagati
Editore: Iris4
Collana: Fabula
Dati: 2013, 224 p., brossura
Prezzo di copertina: 15, 50 euro

Descrizione:
Stringere amicizia con Adolf Hitler... il peggiore degli incubi o la più avvincente delle avventure? Dipende da quanta immaginazione si è disposti a impiegare nel serissimo gioco della letteratura e dell'esistenza. È allora possibile cambiare il passato, contrastare intenzioni e scelleratezze del Führer? Viaggi nel tempo, esperienze extrasensoriali, metempsicosi traghettano infatti il protagonista in una dimensione dove la storia non è stata ancora scritta. Ecco dunque gli anni della Prima e della Seconda Guerra Mondiale trasformarsi in teatro di fenomeni particolari ove sogno e realtà riescono a fondersi contribuendo a illuminare la strada che porta alla verità, alla ricerca di senso puro, non ancora contaminato da giudizi e pregiudizi storici emotivamente inadeguati. 

L'autore: 
Orazio Andrea Santagati giura di non avere mai letto un libro… Autore dalla vita però quanto meno romanzesca. È stato infatti pugile professionista, carabiniere, paracadutista, soldato con medaglia d’argento e bodyguard. Nato a Catania, vive da sempre a Roma. Trafficando con un vecchio televisore in senso stretto e lato Orazio viene folgorato dall’elettricità. Eccolo dunque da piccolo eroe contemporaneo tradurre la scintilla della passione nel governabile intrigo di cavi e  circuiti elettrici.


La recensione di Sara: 
Andrea riceve spesso visite di fantasmi che arrivano direttamente dal passato. Sono uomini che hanno combattuto in trincea e che chiedono il suo aiuto, vogliono che trovi qualcuno e che lo fermi.
I fantasmi gli chiedono di tornare nel passato e di incontrare Adolf Schicklgruber, un uomo pericoloso che deve assolutamente essere fermato. Inizialmente il nome non gli dice nulla, Andrea non riesce a comprendere chi sia quest’uomo tanto terribile, sarà solo grazie alla sua amica Giulia, appassionata di esoterismo e parapsicologia, che scoprirà la vera identità del ricercato.
Si tratta di Adolf Hitler, il cognome suggerito dai fantasmi è quello di sua madre, prima che diventasse il Führer. E sarà proprio questo che Andrea dovrà impedire, che il giovane Adolf si arruoli nell’esercito e arrivi al potere, distruggendo miliardi di vite.
Uno stato di coma gli permetterà di tornare indietro nel tempo e incontrare un giovane Hitler, appassionato di arte e intenzionato a diventare pittore.
Andrea diventerà suo amico e cercherà in tutti i modi di dissuaderlo da quello che è il suo reale destino. Ci riuscirà? 
L’amico del Führer presenta un affresco storico decisamente diverso da quelli a cui siamo solitamente abituati. Quello che si incontra tra le pagine non è il temibile Hitler dell’Olocausto ma un giovane pieno di ambizione, un ragazzo comune con sogni e speranze come tutti, in cerca di se stesso.
Il rapporto tra Andrea e Adolf è così naturale da sconvolgere, dona una nuova immagine alla storia e lascia pensare al Führer come un uomo comune, incapace di compiere un genocidio. Umanità e, a volte compassione, sono i sentimenti che germogliano nel lettore nei confronti di un uomo incompreso e pieno di voglia di fare.
Nonostante l’originalità della trama e l’interesse scaturito dai numerosi cenni storici e biografici del personaggio, il romanzo presenta alcune pecche.
Tutto si compie troppo in fretta e il lettore non ha modo di entrare realmente nella storia, gli eventi si susseguono a catena e a una rapidità che non permette di metabolizzare l’accaduto.
Nel giro di pochissime pagine Andrea scopre l’identità dell’uomo che deve incontrare e, in altrettante pochissime pagine ha già attraversato il portale che lo porterà nel passato.
Più suspense avrebbe reso sicuramente meglio la storia, un alone di mistero in più avrebbe accebtuato la linea esoterica del romanzo.
Il ritmo accelerato tende a dare poca credibilità ai fatti. Si ha poco tempo per comprendere cosa stia accadendo e, anche i personaggi sembrano doversi arrendere agli eventi.
Quando il protagonista comincia a vedere i fantasmi non ha neppure il tempo di chiedersi cosa stia capitando che immediatamente si ritrova sulle tracce di Hitler. Andrea non si pone domande di fronte alle entità giunte dal passato, neppure per un secondo dubita della sua sanità mentale, nota che stride se si pensa a un uomo comune che di punto in bianco si ritrova a parlare con gente morta in trincea quasi quarant’anni prima.
Nel complesso è un potenziale buon romanzo ma che, purtroppo, non si esprime al meglio. Qualche attenzione in più ai dettagli avrebbe sicuramente reso più giustizia a una storia originale narrata da un meritevole autore.





mercoledì 28 agosto 2013

Anteprima: Casa di foglie di Mark Z. Danielewski

In libreria a settembre 2013

Titolo: Casa di foglie
Autore: Mark Z. Danielewski 
Editore: Beat
Collana: SuperBeat
Traduzione dall’inglese di Francesco Anzelmo, Edoardo Brugnatelli e Giuseppe Strazzeri
Pagine: 736
Prezzo: 14,90

 Ritorna una delle grandi opere del nuovo millennio. Un libro-culto.
Un bestseller che da 13 anni è tra i romanzi americani più venduti.

Descrizione:

Sin dal suo apparire, il 7 marzo 2000 negli Stati Uniti, Casa di foglie viene subito considerato uno dei grandi libri dell’inizio del nuovo millennio, un’opera in cui la letteratura mostra la sua vera, enigmatica profondità. Apprezzato da critica e pubblico, celebrato da scrittori come Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem, il romanzo di Mark Danielewski è da allora uno dei libri più venduti negli Stati Uniti, oggetto di un vero e proprio culto e di una sterminata letteratura secondaria.
L’opera si presenta in apparenza come un horror tra i più riusciti nel suo genere. Johnny Truant, un ragazzo che trascina la sua giovane vita in un insulso lavoro in un negozio di tatuaggi, una passione non corrisposta per una spogliarellista e dipendenze varie da stupefacenti e alcol, si sistema in un appartamento di Los Angeles lasciato libero da un certo Zampanò, un anziano critico cinematografico cieco morto di recente. Tra gli oggetti di Zampanò, Truant scopre un manoscritto in cui si narra di un film-documentario intitolato The Navidson Record. Un film terrificante, in cui ci si imbatte in quanto di più alieno sia mai stato concepito.
Nella più pura assenza. Nel vuoto. Nella tenebra che divora la tenebra.
Nell’aprile del 1990 – racconta Zampanò – Will Navidson, celebre fotoreporter, e la sua compagna Karen Green, un’attraente ex modella, per rinsaldare il loro traballante rapporto, comprano una casa in Virginia. Con l’intento di riprendere il modo in cui il luogo comincia a essere abitato e vissuto, Navidson piazza un po’ di telecamere nelle varie stanze. Dopo qualche giorno, la stupefacente scoperta: dal nulla sbucano un corridoio e una porta visibili solo all’interno della casa. L’abitazione risulta di fatto più grande dentro che fuori. Col tempo il corridoio si allarga, trasformandosi in un labirinto sterminato e buio, fatto di stanze enormi e porte che conducono in altre stanze, ad altre porte e a infinite scale a chiocciola la cui discesa può durare da cinque minuti a settimane intere.
Un terribile ruggito, inoltre, scuote i muri e annienta le sicurezze dei Navidson trasformandone i sogni in incubi.
Il manoscritto di Zampanò afferma che la storia di Navidson ha raggiunto fama internazionale, giungendo all’orecchio di personaggi del calibro di Stephen King, Stanley Kubrick, Douglas Hofstadter e Jacques Derrida. Eppure, quando Truant investiga, non trova nessuna traccia della casa, nessuna prova degli eventi accaduti e null’altro che possa stabilire con certezza che The Navidson Record esista davvero al di fuori del testo di Zampanò.
La casa dei Navidson, tuttavia, esattamente come per il fotoreporter e per Zampanò, è diventata per Truant un’ossessione ineliminabile, la prova dell’esistenza di un potere oscuro e incontrollabile o, forse, semplicemente dell’esistenza stessa di Dio.
 
L'autore:
 
Mark Z. Danielewski nasce a New York il 5 marzo 1966 da padre polacco, il regista d’avanguardia Ted Danielewski, e da madre statunitense. È il fratello maggiore della cantante Anne Decatur Danielewski, in arte Poe. Tra le sue opere Casa di foglie (House of Leaves, 2000), The Whalestoe Letters (2000), The Fifty Year Sword (2005), Only Revolutions (2006).  

Hanno detto di questo libro:
 
«Un grande romanzo… Denso al di là dell’immaginazione, raccapricciante in maniera sublime, spaventoso fino all’inverosimile, intelligente oltre ogni misura – fa impallidire larga parte della narrativa in circolazione».
Bret Easton Ellis
 
«Casa di foglie è un’opera di grande invenzione. Non è semplicemente narrativa di genere, poiché l’autore ignora le convenzioni dell’horror: non vi sono fantasmi, extraterrestri cattivi o mostri smascherati. C’è solo la casa. Architettura diabolica simile alla Biblioteca universale di Borges, la casa turba l’immaginazione del lettore poiché lo spazio – la disposizione di muri e piani, la certezza di una relativa topografia – è normalmente la sola cosa su cui facciamo affidamento… Navidson fa alla fine ritorno alla casa poiché ha deciso che è Dio».
Guardian
 
«Un mosaico narrativo che si legge, nello stesso tempo, come un thriller e una straordinaria, onirica escursione nel subconscio».
The New York Times

«Un’opera così demoniaca e brillante che è impossibile ignorarla e smettere di leggerla».
Jonathan Lethem
 
«C’è un fondo di potere oscuro in Casa di foglie, e la percezione del ritorno alla grande materia della letteratura americana: le case spiritate di Hawthorne, Poe e Lovecraft . . . una tra le poche opere di narrativa capaci di restituirci realmente l’incubo».
Independent
 

Recensione: Leodhrae. Il risveglio dell'alchimia

Titolo: Leodhrae. Il risveglio dell'alchimia
Autrice: Aurora Filippi
Editore: Selfpubishing
Pagine: 511
Prezzo cartaceo: 19,90
Prezzo Ebook: 3,07
 
 
Descrizione:
V`era un patto, una promessa solenne e delle firme sul sigillo che incatenava la forza che aveva osato mettere in dubbio l`autorità divina e la supremazia della Magia. Quel sigillo si è rotto e ora i fautori di quelle firme hanno il dovere di agire, discendendo nuovamente tra i mortali per salvarli dalla piaga dell`Alchimia. I quattro Dei degli elementi creeranno l`esercito per distruggere quel potere subdolo e strisciante che già una volta ha corrotto i loro dominio e che ora promette di distruggerlo per sempre. Il buio inghiottirà il mondo, i forti sceglieranno il loro vessillo e si prepareranno ad affrontare una guerra per la salvezza. Ma nell`ombra striscia la paura, paura per una leggenda che sembra rivelarsi fin troppo reale. In sette attendono, forse nascosti in luoghi dimenticati, forse tra le pagine di un libro. Sette promesse di vittoria per coloro che per primi li avranno.

L'autrice:

Aurora Filippi nasce il 25 Marzo del 1988 in provincia di Firenze. Fin da piccola cresciuta in una casa piena di libri, ama da sempre leggere. La scrittura, però, non era nei suoi progetti. Da piccola ambiva a fare la naturalista, ma in seguito ha optato per dare spazio alla sua innata passione per il disegno. Scopre la scrittura attraverso il gioco di ruolo e ne fa un hobby fisso che occupa sempre più il suo tempo libero. Dopo aver sperimentato concorsi di scrittura, decide di provare a pubblicare un libro, optando per il self publishing.
 
La recensione di Miriam:

L’eterna lotta tra bene e male è un tema assai ricorrente nel genere fantasy ma che non cessa mai di stupire per le infinite possibilità interpretative a cui si presta. L’esordio di Aurora Filippi non fa eccezione in tal senso, si lascia ispirare da questa tematica di fondo interpretandola però in modo personalissimo e indubbiamente originale.
Leodhrae è il nome di una città immaginaria in cui il male, identificato con l’alchimia, si è risvegliato a opera del temibile Ghadra. Il suo obiettivo è quello di conquistare il mondo avvalendosi del supporto di creature terrificanti alle quali egli stesso ha dato vita sfruttando i suoi poteri alchemici. Ma a intralciare i suoi piani intervengono le forze del bene, rappresentate dagli dèi dei quattro elementi. Il dio del fuoco (una fenice), la dea dell’acqua (una sirena), il dio dell’aria (un drago) e quello della terra (un centauro) si apprestano infatti a preparare i loro eserciti e ad affrontare il comune nemico in uno scontro epocale.
A gradi linee questo è il nucleo intorno a cui l’autrice tesse il suo ordito, all’apparenza semplice ma arricchito di così tante sfumature e particolari da trasformarsi strada, facendo, in una tela fittissima nella quale alto è il rischio di perdersi.
In effetti è più o meno quanto è accaduto a me in corso di lettura: ho intrapreso il viaggio animata da grande curiosità ed entusiasmo ma, andando avanti, mi sono perduta al punto di non riuscire più ad apprezzare e comprendere la storia fino in fondo.
A provocarmi un gran senso di confusione è stato principalmente l’utilizzo di una fitta schiera di voci narranti. Le più “importanti” sono quelle corrispondenti ai quattro Signori degli elementi ma a queste si affiancano anche le voci di altri personaggi cosicché otteniamo nel complesso una consistente pluralità di POV. I narratori raccontano tutti in prima persona alternandosi in maniera casuale nei vari capitoli. Ne consegue che all’inizio di ciascun capitolo non si sa chi stia parlando e quasi mai lo si comprende subito. Ciò mi ha provocato un costante senso di smarrimento che ha messo a dura prova la mia capacità di concentrazione.
Immaginate di partecipare a un festa in maschera e di dover trascorrere l’intera serata a cambiare costume. Ecco, leggendo ho provato qualcosa di simile, mi sembrava di entrare e uscire senza sosta dai vari personaggi, così facendo non ho potuto immedesimarmi in nessuno e, a lungo andare, ho cominciato ad avvertire anche un gran senso di stanchezza.
A rendere ancor più complicata l’impresa si aggiunge il fatto che gli attori  sguinzagliati sul campo sono tantissimi e  per lo più hanno nomi quasi impronunciabili (Kerfat’Fuer, Asekar Lostdal Vedur, AnhelieèLen, Iker’Undos…); tra gli altri si aggirano strani incroci nati dagli esperimenti di Gadhra, esseri dalle fattezze e i nomi partoriti interamente dalla fantasia dell’autrice (cito a titolo di esempio i Beriak – simil lupi mannari – i Drow – ovvero una specie di elfi con pelle nera e capelli bianchi, le Goriak – esseri viventi che in realtà sono Chiavi non meglio precisate…) . Memorizzarli e riconoscerli è praticamente impossibile. Il libro è corredato di un glossario in appendice atto a facilitare il compito, ma leggere dovendo ricorrervi di frequente è tutt’altro che rilassante.
In conclusione, ho apprezzato la fervida fantasia dell’autrice, che oserei definire straripante, ho intravisto grandi potenzialità nell’idea alla base di questo romanzo dall’impianto epico ma mi sono scontrata con una tecnica narrativa e uno stile espositivo che hanno trasformato la lettura in un’esperienza faticosa più che emozionante. La necessità di comprendere chi stesse raccontando ogni volta che cambiavo capitolo, il bisogno di correre al dizionario per ricordare fattezze e nomi dei personaggi presenti sulla scena hanno finito per farmi perdere completamente il filo della storia lasciandomi, al termine, con la sensazione di aver perso qualcosa di essenziale lungo la via.
Per esempio non ho compreso il ruolo degli angeli, che non mancano di fare la loro comparsa, in una storia che per impianto e protagonisti sembra volersi inserire in una cornice di stampo pagano…
Probabilmente una migliore gestione dei POV avrebbe reso la lettura più scorrevole consentendo ai pregi dell’opera di venire alla luce. Allo stato attuale mi sembra un diamante grezzo che necessita ancora di essere lavorato perché possa brillare davvero.










lunedì 26 agosto 2013

Anteprima: L'ultimo diario di Marco Greganti

Titolo: L'ultimo diario
Autore: Marco Greganti
Editore: Cut -Up
Collana: Neon
Pagine: 173
Prezzo: 15,00 euro
 In libreria da luglio 2013

Descrizione:

Arianna vive a Roma ed è una normale ragazza di sedici anni. Quando inizia a scrivere il suo diario il mondo è ancora quello che conosciamo. Ma ben presto, anticipate da inquietanti segnali che nessuno è in grado di riconoscere, creature misteriose giungono dagli abissi a seminare il terrore sul mondo. Un mockumentary a forti tinte, dove lo spunto alla Cloverfield si trasforma in un insolito romanzo di formazione.

L'autore:


Marco Greganti: conseguito il diploma alla scuola Holden a Torino nel 2003, nel 2004 frequenta il corso Rai/Script in qualità di corsista. Nel frattempo vince alcuni festival di sceneggiature per cortometraggi e compone musica per Fabri Fibra e Nesli con cui collabora tutt'ora. Nel 2005 lavora come story editor alla casa di produzione cine-televisiva Albatross. Dal 2006 al 2008 è lo story liner della soap "Incantesimo" prodotta dalla Dap Italy per Rai Uno. Ha vinto anche diversi concorsi letterari e attualmente sta collaborando con la Ibla Film di Beppe Fiorello.
 








domenica 25 agosto 2013

Recensione in anteprima: Il messaggio nella bottiglia

Titolo: Il messaggio nella bottiglia
Autore: Jussi Adler-Olsen
Editore: Marsilio
Pagine: 560
In libreria dal 18 settembre 2013

Descrizione: 
Dopo aver galleggiato sulle acque del mare per chissà quanto tempo, una bottiglia che racchiude un vecchio messaggio finisce sulla scrivania dell’ispettore Carl Mørck. Un grido di aiuto scritto con il sangue: due fratelli imprigionati chiedono di essere liberati. Chi sono i due ragazzi, e perché nessuno ne ha denunciato la scomparsa? Potrebbero essere ancora vivi? Carl Mørck e il suo assistente siriano Assad dovranno usare tutte le risorse disponibili per svelare la spaventosa verità che le onde del mare hanno trascinato alla deriva troppo a lungo.  
 
L'autore:
Jussi Adler-Olsen (Copenaghen, 1950) è l’autore danese più venduto nel mondo. Dopo aver studiato. medicina, sociologia, scienze politiche e comunicazione, ha svolto i lavori più vari: redattore di riviste e fumetti, coordinatore del movimento per la pace danese, caporedattore di settimanali e trasmissioni televisive. Ora è scrittore a tempo pieno e i suoi libri hanno conseguito importanti riconoscimenti internazionali. Con Marsilio ha pubblicato i primi due romanzi della fortunatissima serie della Sezione Q, La donna in gabbia – da cui è stato tratto un film prodotto dalla casa di produzione Zentropa di Lars Von Trier, il cui lancio internazionale è previsto per ottobre 2013 - e Battuta di caccia.   

La recensione di Miriam:


C’era una volta una bottiglia contente un messaggio vergato con il sangue. Un ragazzino la infilò in una fessura della sua prigione e da lì, per vie misteriose, giunse al mare. Viaggiò a lungo trasportata dalle onde fino a che, arrivata in prossimità delle isole Orcadi,  non si impigliò nella rete di un pescatore che la consegnò alla gendarmeria. L’uomo che la prese in consegna però la dimenticò su un davanzale e dopo poco morì. Ci vollero anni perché qualcuno la ritrovasse.
Solo allora lo strano reperto finì su una scrivania della Sezione Q, il vetro in frantumi e il foglietto finalmente dispiegato per essere letto. Ma a quel punto, purtroppo, le lettere erano quasi tutte sbiadite e il messaggio non era più comprensibile…
Sembrerebbe l’incipit di una favola horror, invece non è che l’inizio dello strepitoso thriller targato Marsilio che potrete trovare in libreria a partire dal prossimo 18 settembre.
Dopo il grande successo di autori quali Stieg Larssonn, Henning Mankell, Camilla Läckberg, la casa editrice torna a puntare su uno scrittore nordico: si tratta del danese Jussi Adler-Olsen, già pubblicato in moltissimi paesi, dagli Stati Uniti all’Oriente, suscitando l’entusiasmo di critica e lettori − entusiasmo che, a lettura finita, sento di condividere anch’io.
Una richiesta d’aiuto che viene dal passato ha in sé qualcosa di inquietante. Inquieta l’idea che un appello disperato, tanto da essere stato tracciato con il sangue, possa aver sfidato il tempo e lo spazio e inquieta ancor di più, il timore che sia troppo tardi per poter fare qualcosa di utile.
Certo, potrebbe trattarsi di uno scherzo di cattivo gusto, ma nel dubbio è davvero difficile distogliere lo sguardo. L’ispettore Carl Mørk sa benissimo che impelagarsi nella soluzione di un  mistero del genere è un’impresa quasi persa in partenza, sa che  ci sono casi più urgenti di cui occuparsi ma non riesce ad archiviare l'accaduto con leggerezza, tanto più perché le poche parole del biglietto ancora leggibili fanno presagire che a scriverle non sia stato un adulto. Dopo un’attenta analisi e diversi tentativi di ricostruzione del testo, si fa strada l’ipotesi che dietro quel messaggio nella bottiglia si celi un rapimento ai danni di due fratellini.
Ma è possibile che due minorenni siano scomparsi nel nulla senza che nessuno ne abbia mai denunciato la scomparsa? Chi possono essere e, soprattutto sono ancora vivi?
Simili interrogativi non possono essere messi a tacere e l’ispettore capo della Sezione Q è determinato a trovare tutte le risposte. Il lettore, al contrario, le conosce in partenza, per lui non si tratta di scoprire chi ma perché e come. Thriller puro più che romanzo giallo, Il messaggio nella bottiglia non ci sfida a scoprire il colpevole ma a comprenderne le ragioni, oltre che a scandagliare il metodo investigativo fino a capire come si possa, a partire da poverissimi indizi, risalire all’autore di un crimine che si rivelerà essere la punta di un iceberg giacché quello veicolato dalla bottiglia è solo uno di una lunga serie.
L’autore ci fa entrare così nella mente di un serial killer, ci fa toccare l’abisso in cui il suo disegno malato ha preso forma mostrandoci non la faccia ma il cuore del male.
Si assottiglia la linea di demarcazione che divide i buoni dai cattivi man mano che il quadro d’insieme assume contorni definiti e una torbida realtà sale a galla dando un senso alla follia omicida.
Il terreno su cui germoglia questa storia di sangue è quello in cui il fanatismo religioso affonda le sue radici. Le indagini ci condurranno infatti nel sottobosco delle sette perché sarà proprio questa realtà a fornire un comun denominatore per i rapimenti venuti alla luce. Che siano Testimoni di Geova, seguaci della Chiesa Madre o di Scientology, i ragazzini rapiti provengono tutti da comunità chiuse e bigotte, piccoli buchi neri in cui la collera di Dio è più forte della misericordia e le persone possono scomparire senza lasciar traccia perché i “panni sporchi si lavano in casa”, perché i segreti che riguardano il gruppo non trapelano mai all’esterno.
Una dimensione ottusa, asfittica, agghiacciante descritta con grandissimo realismo e che conferisce al romanzo un interessante tocco di novità ponendo l’accento su una tematica attuale.
Se la trama ben congegnata sorretta da uno stile accattivante fa sì che oltre cinquecento pagine scorrano con la leggerezza di una piuma, la particolarissima squadra investigativa messa su da Adler- Olsen ci fa affezionare alla sezione Q che, di fatto, può essere considerata l’ennesimo tocco da maestro per un thriller perfetto. Disilluso e reduce da una bruttissima esperienza che gli è quasi costata la vita, Carl  Mørk si caratterizza per il suo disincanto misto a un profondo senso di umanità. Divide il suo appartamento con due amici, uno dei quali è un collega rimasto paralizzato dal collo in giù nel corso di una sparatoria, e l’ufficio con due assistenti a, dir poco, sopra le righe: la stravagante Rose che soffre di personalità multipla e il simpaticissimo Assad, un siriano dal passato misterioso e un modo di esprimersi assai spassoso.
Pur reggendosi autonomamente ed essendo autoconclusivo, Il messaggio nella bottiglia è il secondo libro della serie dedicata alla Sezione Q, inaugurata con Battuta di Caccia (Marsilio, 2012).  
Intanto in America è già in lavorazione una serie televisiva basata sull’opera mentre in autunno approderà sul grande schermo il film ispirato al primo libro.  
Se amate il thriller non vi resta che far partire il conto alla rovescia e fiondarvi i libreria!







  




  




martedì 13 agosto 2013

Recensione: Io sono le voci

Titolo: Io sono le voci
Autore: Danilo Arona  
Editore: Edizioni Anordest
Collana: Criminal Brain
Pagine: 358
Prezzo: 12.90 €

Descrizione:
IO SONO LE VOCI è un thriller che si rifà a un caso di cronaca degli anni settanta in cui un serial killer a Milano massacrò decine di donne di ogni estrazione sociale. L’autore ripercorre tutte le tappe di questo feroce criminale che veniva chiamato “il proiezionista” dal lavoro che faceva in periferiche sale cinematografiche curando la proiezione di film in anguste cabine. I suoi assassinii erano difatti delle “citazioni” di thriller della cinematografia internazionale, di cui ne imitava di volta in volta le modalità di massacro.
Ne risulta un thriller che pur raccontando uccisioni feroci, coinvolgendo il lettore in una suspence degna delle migliori penne, riesce comunque a diluire le inevitabili tensioni con una scrittura che evidenzia in continuazione lo sfondo storico e sociale di quegli anni in cui il terrorismo la faceva da padrone. Ne risulta un thriller che alla fine ci dice che i crimini più efferati, i serial killer più feroci sono comunque e sempre figli, degenerazioni della società a cui appartengono.

L'autore:

DANILO ARONA, scrittore, giornalista, critico cinematografico, è uno dei maestri della letteratura horror italiana. Ha pubblicato diversi romanzi tra i quali “L’estate di Montebuio” (Gargoyle Books), “Bad Vision” (Mondadori), “Finis Terrae” (Segretissimo Mondadori), “La Croce sulle labbra” insieme a Edoardo Rosati (Segretissimo Mondadori).
 
La recensione di Miriam:
 
“Questo libro è una dichiarazione d’amore, neanche tanto sommessa, nei confronti di certo cinema che amo”. È lo stesso Danilo Arona ad affermarlo nelle note conclusive del suo romanzo. Naturalmente, da maestro del terrore fine qual è, non poteva che vergare questa sua dichiarazione con il sangue − d’altra parte amore e morte sono spesso facce di una stessa medaglia. Nasce così Io sono le voci, un thriller fortemente adrenalinico ma che si rivela essere anche un particolarissimo omaggio al mondo cinematografico.
Investigando su alcuni delitti seriali, lontani nel tempo e nello spazio,  la giovane giornalista Cassandra Giordano scopre un insolito fil rouge che rimanda proprio al grande schermo. L’idea che il serial killer in questione si ispiri a determinate pellicole per porre in atto i suoi omicidi, sta cominciando ad assumere contorni sempre più definiti nella sua mente quando, lei stessa finisce su una sorta di set dell’orrore, trasformandosi da investigatrice in vittima. Le indagini di Cassandra giungono a un punto d’arresto il giorno in cui, come la protagonista de “Il silenzio degli innocenti” si reca in carcere a interrogare un famoso pluriomicida noto come il Proiezionista. Recatasi all’appuntamento da novella Jodie Foster, esce di scena sgozzata da un guanto artigliato che richiama Freddy Krueger.
I sospetti e le scoperte di Cassandra non cadranno però nel vuoto perché sua sorella Arianna, coadiuvata dall’ispettore di polizia Cesare Fantelli,  deciderà di proseguire nella ricerca.
Verrà così scoperchiato un vaso di Pandora da cui emergeranno verità inimmaginabili che rimandano a una lunga serie di omicidi tutti collegati tra loro, riconducibili a una stessa matrice ma, probabilmente,  non imputabili a una singola mano.
Il disegno criminoso che, pian piano, si delinea è quello di una bizzarra forma di effetto copycat per cui siamo in presenza di uno o più assassini spinti dal desiderio di emulazione non già di killer reali ma di sanguinari protagonisti di film. Quasi si trattasse di una macabra forma d’arte, ogni delitto riproduce in maniera più o meno fedele una determinata sequenza cinematografica.
Per il lettore si innesca un meccanismo dall’effetto straniante per cui si ha come l’impressione di essere al di qua di un grande schermo che, lungi dall’erigere una barriera tra finzione e realtà, lascia passare scorie dall’una all’altra parte intorbidando le acque e finendo per rompere definitivamente gli argini. A completare e rendere più credibile questo bizzarro processo di osmosi, vi sono poi la cornice storica in cui si inscrive il plot e il collegamento alla cronaca vera a cui Arona non rinuncia mai. Se i personaggi e l’intreccio sono un parto della sua fantasia, l’idea del copycat murder effect trova un fondamento nella realtà da cui prende spunto senza farne mistero. Dal Mostro di Firenze a Daniel Gonzalez (emulo inglese di Freddy Krueger), diversi sono infatti gli assassini, realmente esistiti, che si sono lasciati ispirare dalla visione di certi film. Rinunciando a una semplicistica relazione di causa- effetto, l’autore ci suggerisce tuttavia una più complessa chiave interpretativa del fenomeno, scavando nella psicologia e ricostruendo un background dettagliato dei suoi personaggi. Particolare in tal senso  è l’attenzione dedicata soprattutto ai “cattivi” che, una volta passati sotto i  suoi raggi x,  pur rimanendo tali, ci appaiono sicuramente più umani e più comprensibili − basti pensare a Edoardo Godiaschi la cui infanzia fa concorrenza al più cruento film dell’orrore.
La biografia del serial killer diviene dunque una sorta di canovaccio che, se non giustifica e non permette previsioni incontrovertibili, ci fornisce comunque degli indizi col senno di poi, facilitando una certa forma di empatia. Danilo Arona però non si limita a questo e allarga ulteriormente la prospettiva; dall’interpretazione psicologica passiamo a quella sociologica quando risalendo la scia dei delitti, le indagini procedono a ritroso nel tempo riportando sotto i riflettori una serie di cold case collocabili tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. È in questo periodo che ha origine la linea di sangue tracciata nella fiction ma che, ancora una volta,  ha un corrispettivo nella realtà − nello specifico in quella serie di episodi di cronaca nera passati in Italia sotto silenzio perché verificatisi in un periodo storico in cui l’attenzione era tutta concentrata sugli attentati terroristici e le energie messe al servizio di una strategia della tensione.
Un romanzo più che di genere al di sopra di qualsisi genere, consigliato se amate il thriller ma ancor di più se vi appassiona il cinema perché leggendolo avrete l’impressione di addentrarvi in un territorio magico in cui libri e film si pongono come metà di un’unità indissolubile .








 

sabato 10 agosto 2013

Intervista a Luca Tarenzi

Luca Tarenzi vive ad Arona sul Lago Maggiore, e divide il suo tempo tra scrittura, traduzioni, telefilm, magia e imprescindibili pomeriggi del sabato a giocare di ruolo. Autore popolare e sofisticato a un tempo, ricco di riferimenti che uniscono storia, leggenda e tradiizone. Per Salani ha pubblicato Quando il diavolo ti accarezza, con un ottimo riscontro di pubblico e critica.




Il Flauto di Pan non può che accogliere con particolare entusiasmo uno scrittore che parla di dèi. Benvenutissimo Luca! Autore affermato e apprezzato, non hai bisogno di presentazioni, ma se dovessi descriverti in poche parole? 

Basso. È la prima parola che viene in mente a tutti. Le successive di solito sono rumoroso, iperattivo, impiccione, disordinato, mal rasato, bugiardo, maniaco-depressivo, hippie, sociopatico, affetto da Sindrome di Peter Pan con abitudini discutibili quali guardare telefilm a pacchi, giocare di ruolo come un tredicenne, ascoltare metal e cantarlo malissimo a squarciagola.

Quando e perché hai deciso che da grande avresti fatto lo scrittore?
Mai deciso, giuro! È stato un incidente. Nel 2003 facevo il giornalista turistico e mi hanno licenziato da un giorno all’altro. C’era una storia che mi girava per la testa da mesi e che non avevo né intenzione né voglia di scrivere, ma a forza di lamentele e piagnistei stavo tirando scema la mia ragazza di allora (che oggi è mia moglie): lei mi ha convinto a mettere per iscritto quella storia, e sospetto ancora oggi che fosse per pura autodifesa. Se non altro me ne sono stato relativamente buono per un po’ di settimane, al termine delle quali avevo prodotto il mio primo romanzo, Pentar. Ho impiegato un paio d’anni per trovare un editore, e nel frattempo ho scritto dell’altro, soprattutto perché… be’, perché continuavo a non avere molto altro da fare. Poi finalmente è venuto il mio lavoro di traduttore e con quello contatti utili per accedere ad altre case editrici, finché nel 2011 sono approdato a Salani. Raccontata così pare una canonica “serie di (s)fortunati eventi”; dalla prospettiva da cui la vedo io continua a sembrare un fottuto miracolo.

Godbreaker. Com’è nata l’idea?
Godbreaker non ha una genesi singola, anzi forse è il più “nebuloso” tra i miei romanzi se si guarda alle idee di partenza. Ci sono dentro letture sulla cultura psichedelica degli Anni Settanta, riflessioni sul folklore dell’Europa Occidentale, il gusto di recuperare le atmosfere degli urban fantasy delle origini (quelli di trent’anni fa, per intenderci), la mia vecchia passione per le leggende metropolitane e discorsi durati anni sulla natura degli dèi con un amico appassionato come me di religioni. Credo che il punto intorno al quale si sono congregati i vari pensieri sia stato la voglia di scrivere una storia che parlasse di una coppia di personaggi che non fossero due (presenti o futuri) innamorati, e che a spingerli avessero motivazioni non troppo “battute” nella letteratura di genere. Per questo ho scelto un padre e un figlio e tra loro ho messo una spinta diversa dalla volontà di aiutare, proteggere o salvare qualcuno/qualcosa, anzi proprio la volontà opposta: quella di distruggere.

Liàthan, Siaghal, Naire, sono tre dèi incarnati decisamente sopra le righe. Ce li  presenti?
Tentando di non fare troppi spoiler, posso dire che sono tre brutti ceffi nati in epoche diverse ma oggi tutti e tre millenari. Naire è quello che nella vecchia Europa avrebbero chiamato uno Spirito Annegatore, e dei tre è quello che ha più testa sulle spalle (e stiamo parlando di un mostro che per vocazione affoga la gente, per cui potete immaginarvi gli altri due…) Siaghal è il figlio bastardo di un orco cannibale, e si sa che le mele non cadono lontano dall’albero. Liàthan è il più vecchio dei tre dal punto di vista anagrafico ma il più giovane e il più irresponsabile da quello psicologico. Nei suoi quaranta secoli di vita ha fatto tutto quel che si può fare sulla Terra: ha combattuto ogni guerra possibile, ha creato e distrutto imperi, ha amato migliaia di donne e seminato figli praticamente ovunque, e oggi la sua più grande nemica è l’immensa noia dei millenni… fino all’inizio del romanzo.

Lithan ed Edwin, padre e figlio, ma anche nemici. A chi
Liàhan- by Fabio Babich
dei due ti senti più vicino?
 
Questa è una domanda non facile. Da un punto di vista morale, Edwin ha ragione e Liàthan torto marcio. Eppure è Edwin quello che arriva a usare mezzi moralmente inaccettabili per portare avanti la sua pur giusta causa, mentre Liàthan combatte solo per difendere se stesso e la propria cocciutaggine, ma nel farlo finisce per compiere atti di giustizia e persino di “bontà”. Liàthan è un bastardo e un irresponsabile (e molte altre cose, tutte poco accettabili nella buona società) ma è anche simpatico, è il genere di persona con cui vorresti andare a ubriacarti in vacanza; Edwin è molto più affidabile, ma è anche gelido, macchinoso e – diciamolo – francamente insopportabile. Sul piano scrittorio, Liàthan è stato molto più facile da gestire di suo figlio: non ho mai avuto dubbi su cosa avrebbe detto o fatto in un dato momento della storia. Di contro Edwin mi ha costretto a pensare molto di più, a immedesimarmi con fatica nel suo punto di vista, una pagina dopo l’altra. Dopo avermi sentito confessare questo, di certo c’è chi concluderebbe che io somiglio di più a Liàthan… E a questo punto io mi chiamo fuori! ;-)

Siaghal by Fabio Babich
Gli dèi sono tra noi solo che in questa epoca non ce ne accorgiamo. Perché?
Fondamentalmente per due ragioni, una interna e una esterna alla storia che ho scritto. La prima è che gli dèi di Godbreaker sono talmente simili a noi che si mimetizzano senza problemi. Alcuni – anche se non tutti – erano uomini e donne mortali prima dell’apoteosi, e la loro nuova natura non cambia affatto la loro personalità umana, anzi se possibile la esacerba. Non sono “dèi del cielo” ma dèi della Terra: i loro interessi sono tutti qui, nella carne e nel sangue, perciò il loro posto è tra di noi, mescolati alla folla. La seconda ragione, quella esterna al mio romanzo, è che il Divino in Terra – salvo casi ben rari – lo trova solo chi lo cerca attentamente. Ma questa è un’altra storia.

“Non c’è niente come la rete per diffondere leggende
Naire by Fabio Babich
metropolitane. Ma il punto è proprio questo: sono troppe. L’eccesso desensibilizza. L’idea che possa essere tutto vero o tutto falso è un vaccino potente contro lo stupore. Potentissimo. E la gente se lo inietta tutti i giorni, col cavo del modem dritto in vena” (Godbreaker pag. 64). Sono parole dell’uomo in verde, parole che suonano quanto mai attuali. Ti va di commentare?
 
Onestamente non saprei cosa aggiungere. Internet per noi oggi è quello che l’acqua è per un pesce. Ci stai dentro, non puoi fare senza, ma a stento ti accorgi che c’è (tranne quando smette di esserci, è ovvio). Come mezzo di diffusione delle informazioni la Rete ha reso possibile l’impossibile, ha quotidianizzato il miracolo. Eppure io resto della ferma convinzione che al genere di informazione che si trova on line si possa perfettamente applicare una ben nota legge della fisica: il Principio di Indeterminazione di Heisenberg.

La storia si muove tra Londra, Amsterdam e Milano. Quale il tuo legame con queste città?
C’è qualcosa nel tuo immaginario che le accomuna? 
Sono città che mi affascinano tremendamente, alla maniera in cui può affascinare qualcosa che conosci sia dall’esterno che dall’interno ma senza esserci mai “entrato per davvero”. Ho una buona esperienza diretta di tutte e tre, ci sono stato molte volte (nel caso di Milano, un’infinità di volte) ma, con l’eccezione di un mese passato ad Amsterdam, non ci ho mai vissuto stabilmente. Non si somigliano tra loro, neppure da lontano, eppure tutte e tre hanno quell’aria, quella particolare “vibranza” che nella mia mente si associa alla magia urbana, alla leggenda metropolitana e in generale al fantastico postmoderno.

Dai vampiri e i licantropi agli angeli, fino ad arrivare ai più recenti zombie, le pubblicazioni urban fantasy sembrano sempre seguire una moda del momento. Godbreaker, da questo punto di vista, rompe gli schemi. I tuoi dèi non seguono alcuna moda, anzi potrebbero inaugurarne una nuova. Il tuo pensiero in merito?
Non l’ho certo inventato io l’urban fantasy con gli dèi! Tanto per dire, lo faceva già Charles de Lint negli anni Ottanta. Ma Charles de Lint in Italia non lo conosce nessuno, anche se oltreoceano è considerato – a ragione – un grande nonché un vero classico (e qui si potrebbe aprire una parentesi sul fatto che quello italiano è un mercato profondamente ignorante e arretrato, che ogni tanto scopre qualcosa che già tutti conoscono e crede di aver trovato Atlantide). Si potrebbero fare molti altri esempi, e se volete qualcosa di noto anche in Italia ci sono American Gods e I ragazzi di Anansi di Gaiman e le saghe su Percy Jackson e Carter Kane di Rick Riordan, giusto per citare i primi che mi vengono in mente.

Nel romanzo sono disseminati alcuni omaggi a maestri quali Gaiman e Lovecraft, non trascurando il più classico Virgilio. Cosa rappresentano per te questi autori e in che modo hanno influenzato la tua scrittura?
Lovecraft non è un’influenza: è una fissa. Lo infilo dappertutto, persino quando non me ne accorgo. L’ho incontrato ai tempi del liceo e non me ne sono più liberato. È una specie di sottofondo sempre acceso del mio immaginario. Ho pure uno Cthulhu di peluche sul comodino. Se mi chiedete “Ti piace Lovecraft?” la mia risposta è “Chiamate un esorcista, per favore”… Di contro Gaiman a volte mi piace, altre meno, ma è senza dubbio uno degli autori di fantasy postmoderno che incontra meglio i miei gusti, perché sa essere – quando è in buona – sia epico che ironico che lirico. E su due piedi non mi viene in mente un altro autore che riesca a coniugare tutti e tre questi elementi.

Ispirazione ed esercizio, quanto e in che misura sono importanti per la scrittura di un buon romanzo? E quali caratteristiche, secondo te, deve possedere un buon romanzo per definirsi veramente tale?
Il buon romanzo non esiste. Punto.
“Il buon romanzo è quello che sa essere classico ma anche originale, ipnotico ma anche ritmato, lungo ma anche corto, rosso ma anche verde”.
“Il buon romanzo è quello che ha ampio successo di pubblico”.
“Il buon romanzo è quello che clona Twilight”.
“Il buon romanzo è quello che non clona Twilight”.
 “Il buon romanzo è quello che segue le regole della corretta scrittura, che rispetta lo Show Don’t Tell, che non incasina i POV, che usa la texture”.
Tutte stronzate.
Esiste solo il romanzo che ti ha preso o non ti ha preso, che ti rimane nella memoria o se ne va via, che ti dice qualcosa o non ti dice una ceppa. Il resto sono chiacchiere da bar (o da blog).
Poi c’è chi ci arriva con l’ispirazione, chi con l’esercizio, chi coi corsi di scrittura, chi coi manuali e chi ascoltando l’omino verde che gli parla dal cruscotto della sua auto e che solo lui può vedere. L’unica cosa che verrà giudicata – perché verrà giudicata, non c’è via di fuga da questo – è il risultato finale.

Che rapporto hai con la lettura? A parte Godbreaker, che merita assolutamente di essere letto, ci consigli un libro per l’estate? 
Se in un incubo seguito a una brutta indigestione un boia incappucciato mi dicesse “Scegli: vuoi che ti cavi gli occhi così non leggerai mai più, o che ti mozzi le mani così non scriverai mai più?” io metterei le mani sul ceppo senza pensarci un attimo.
Come letture per quest’estate, senz’altro gli strepitosi La chimera di Praga e La città di sabbia di Laini Taylor. O, per restare in italico suolo, L’età sottile di Francesco Dimitri.

Progetti e sogni per il futuro?
Progetti: terminare il romanzo che sto scrivendo – e che non è un fantasy, o perlomeno non nell’accezione canonica del termine – e poi scavare fuori dal lavoro “normale” il tempo per scrivere l’ipotetico seguito di Godbreaker, che in effetti non sarà un seguito ma piuttosto uno spin off.
Sogni… qualche giorno di vacanza per dormire un po’, probabilmente!

E per concludere… come saluterebbe Liàhan i nostri lettori?
“Questo è quel che avevo da dire e l’ho detto. Vi ho dedicato gratis un po’ del mio prezioso tempo e vi lascio pure andar via sulle vostre gambe, che non è poco. Perciò coccolatevi la vostra intervista e toglietevi di torno: contenti voi, ma soprattutto contento io”. ;-P

E per saperne di più...
Leggi la nostra recensione di Godbreaker
Visita il blog di Fabio Babich (autore delle bellissime illustrazioni contenute nel post)